Per amore della verità
Nella suggestiva cornice del Teatro degli Arcimboldi, una platea gremita di studenti ha ascoltato la testimonianza di Fiammetta, figlia di Paolo Borsellino. A moderare il dibattito, organizzato dal "Centro Asteria", la referente di Libera Milano, Lucillla Andreucci.
13.12.2022 | Progetti, Legalità, Lotta alla mafiaRedazione Vigaweb
Le classi III C, III G e V B dell’Istituto Viganò, il 13 dicembre hanno partecipato ad una conferenza organizzata dal “Centro Asteria” di Milano."Non bisogna mai smettere di sognare, io sono ancora quella bambina che spera in un cambiamento vero, quello delle coscienze".
Con queste parole ha esordito Fiammetta, classe 1973, terzogenita di Paolo Borsellino, il magistrato che, con Giovanni Falcone, è diventato il simbolo della lotta alla mafia. Trent’anni fa, in un’afosa domenica di luglio, il giudice fu vittima di un attentato, mentre si apprestava a far visita alla madre, residente a Palermo, in via D’Amelio. All’epoca Fiammetta aveva 19 anni e, per sua stessa ammissione, era la più esuberante dei tre figli del magistrato. La famiglia conduceva una vita il più normale possibile, nonostante Paolo Borsellino fosse costantemente accompagnato dalla scorta; soprattutto dopo l’assassinio di Falcone, avvenuto a Capaci il 23 maggio, la sua vita appariva infatti legata ad un filo. Il giudice, tuttavia, con la pungente ironia che lo contraddistingueva, amava scherzarci sopra: “Noi siamo morti che camminano”, ripeteva ogni volta che veniva data la notizia della morte di un magistrato o di un esponente delle forze dell’ordine; e alla figlia, che puntava i piedi per andare a fare volontariato in Africa, obiettava: “Fiammetta dove vai? Se mi ammazzano, dove ti cerchiamo?”.
Il giudice, del resto, era fatto così: umile, alla mano, sempre con il sorriso sulle labbra e la battuta pronta. Nel tempo libero, con la famiglia, amava passeggiare nel quartiere arabo della Kalsa, dove da bambino giocava a calcio con l’amico Giovanni Falcone e i figli dei mafiosi.
Questo particolare, ci ricorda che, indipendentemente dall’ambiente dal quale veniamo, siamo chiamati a scegliere da che parte stare. Paolo Borsellino conosceva l’importanza di vivere il territorio, per conoscerlo e comprenderne le problematiche. Palermo, in particolare, pur essendo la sua città natale, non gli piaceva, ma, come amava ripetere "il vero amore consiste proprio nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo cambiare".
Per raggiungere questo obiettivo, il giudice si è prodigato per creare una società migliore, per consentire a tutti di vivere in un mondo libero da compromessi, proprio ciò di cui si nutre la mafia. Per questo motivo, dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino, seppur profondamente addolorato, non pensò di mettere al sicuro sè stesso e la propria famiglia, ma continuò a lavorare, partecipando contemporaneamente a fiaccolate, incontri con le scuole e con la società civile. A questo proposito, Fiammetta si sofferma su un episodio importante, dal quale si può evincere la disperata solitudine del padre: durante un incontro pubblico, Borsellino si lasciò scappare di sapere cosa fosse successo a Capaci, finendo così per siglare la sua condanna a morte definitiva. Dall’omicidio del capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano (21 luglio 1979), in poi, è morto chi è restato da solo, perchè abbandonato dallo Stato; ne era fermamente convinto Borsellino, il quale profeticamente ebbe ad affermare: "È la mafia che mi ucciderà, ma lo farà quando avrà avuto la completa certezza che io sia rimasto solo".
A questo punto, Lucilla Andreucci ha criticato la debolezza dimostrata dallo Stato italiano, che, nella lotta contro la mafia, non ha saputo proteggere i suoi uomini. “Prima della mafia” - ha puntualizzato - “c’è la “mafiosità” ossia l’omertà, l’indifferenza. Occorre invece aver la forza di testimoniare, dimostrando di avere una coscienza civile”.
E’ quindi oltre modo importante parlare di Legalità nelle scuole, per continuare a mantenere alto il livello di attenzione, per creare gli anticorpi, al Sud come al Nord, dove, nel frattempo, la mafia ha fatto proseliti.
Durante le due ore dell’incontro, Fiammetta Borsellino ha risposto alle numerose domande degli studenti, le quali hanno permesso di rivelare un Paolo Borsellino inedito: dalle scorribande con la Vespa, all’insaputa della scorta, all’umanità dimostrata nei confronti dei peggiori criminali, nei quali intravedeva sempre una luce.
La lotta alla mafia si fa con le conoscenze giuste, con la cultura, veicolata dalla scuola. Per questo motivo, ha precisato Fiammetta Borsellino, lei ha iniziato a testimoniare soltanto da adulta: prima ha studiato e si è formata, perchè questo è quanto avrebbe voluto suo padre. Lei e la sua famiglia non sono rimasti prigionieri di rabbia, vendetta e paura, sentimenti che non portano a nulla. I veri “morti” sono dunque coloro che sono prigionieri del dolore, delle cose che sanno, ma non dicono.
Al di là delle celebrazioni, oggi fare Memoria non significa dunque perdersi in riti sterili o risarcimenti postumi, ma piuttosto nell’ascoltare testimonianze di vita, per raccogliere il testimone, riappropriandosi al contempo del territorio.
Nel vuoto - infatti - fisico o culturale, la mafia prolifera. La via da seguire ci viene indicata ancora una volta dal Paolo Borsellino, magistrato, padre, uomo: “La lotta alla mafia dev'essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.